LUCIANO CARAMEL 2004
La scultura come interrogazione
Triste, e ingiusto, destino, quello di Amilcare Rambelli, scultore tra i maggiori,
nelle premesse di poetica e nei risultati, su di un piano internazionale, tra quanti operarono
negli anni sessanta-settanta, i pochi che gli furono concessi per applicarsi con propositività
interrogativa ai problemi di un linguaggio appunto allora riaffrontato negli stessi fondamenti
statutari, fino a metterne in discussione la medesima legittimità storica, per il sostanziale giro
di boa, sul piano
teorico e fattuale, che nel clima post-informale l’intera arte occidentale si trovò ad affrontare.
Il suo impegno radicale, concretato in progetti e opere di alta qualità, non ebbe quell’attenzione
che avrebbe meritato, se non fuori della vetrina ufficiale, critica e mercantile, che con uno
schematismo funzionale ai propri obbiettivi puntava, come del resto sempre avviene, solo su alcuni nomi e gruppi privilegiati.
Basta scorrere l’elenco delle mostre
personali e collettive allestite dall’artista in quegli anni e la scarsa bibliografia per toccare con mano la sostanziale
marginalità di Rambelli, in rapporto al suo valore reale, nel panorama italiano del tempo. Marginalità che poi la morte
prematura dell’artista, nel gennaio 1976, nel pieno della sua ricerca, ebbe inevitabilmente a perpetuare, anzi ad
accentuare, anche per l’assenza di stimoli commerciali e per lo stesso ulteriore cambiamento di scena che si imporrà
subito dopo, con le fortune dell’evoluzione dell’arte concettuale nei termini di una nuova figurazione.
Che spostò il
punto focale dell’interesse critico al di là del nodo problematico che era stato oggetto dello sperimentare di Rambelli:
sulla scultura in relazione al mutare delle coordinate temporali, e quindi culturali, ma sempre – ed è un’ulteriore,
e tutt’altro che secondaria, causa della scarsa fortuna dell’artista – entro, non oltre, la scultura.
Preistoria e protostoria
La vicenda della ricerca innovativa in ambito plastico di Rambelli si dipana dai primi anni sessanta,
dopo il ritorno dell’artista a Milano, nel 1959, dall’Abruzzo, dove s’era trasferito nel 1950,
vivendo prima a Teramo, fino al luglio 1955, quindi a Castelnuovo Vomano, un paese di quel territorio.
Luoghi d’origine della sua famiglia, d’altronde, nei quali Amilcare già s’era rifugiato nel 1943,
nel pieno del dramma della guerra, lasciando Milano, dove era nato nel 1924, e interrompendo gli
studi al Liceo Artistico di Brera.
Vi si tratterrà fino al 1945, per rientrare a Milano e per applicarsi in un primo tempo soprattutto
alla caricatura, per il periodico “L’Illustrazione Italiana”, quindi, attorno al 1949,
alla realizzazione di copertine e illustrazioni per libri della Casa editrice milanese Baldini e Castoldi.
Sullo sfondo, il clima vivace dell’immediato dopoguerra , animato dalla volontà di riallacciare l’arte alla vita,
alla storia, ai suoi problemi (drammatici, all’inizio, in particolare in una città come Milano, dilaniata, svuotata e
frenata dal conflitto), precorsa dal movimento di Corrente, a cavallo del 1940, maturata nella clandestinità e nella
lotta partigiana in molti suoi compagni di strada ed esplosa nel medesimo avanzato 1945 e nell’anno seguente, nella pittura,
nella scultura, come del resto nella pubblicistica, quanto mai vivace e battagliera; all’insegna del Picasso di Guernica,
in un postcubismo innervato di implicazioni realistiche, anche ideologicamente tese, con tutti i rischi connessi, ma anche con
la generosità di un impegno sociale che nell’arte intendeva incarnarsi.
Situazione che, nel procedere del decennio e nell’avviarsi della ricostruzione, va poi precisandosi
e modificandosi, sempre a Milano, come a Roma del resto, l’altro principale polo della ricerca artistica, anche in direzioni
del tutto diverse, opposte addirittura al realismo engagé della prima ora (che, a cominciare dal 1948, si evolverà accentuando
il coinvolgimento politico, e partitico, per approdare al cosiddetto “neorealismo”, o realismo sociale, culminato nei primi
anni cinquanta nella pubblicazione della rivista programmatica “Realismo”), come principalmente nel MAC, il Movimento
d’Arte Concreta, nato nel tardo 1948 per iniziativa di un quartetto quanto mai eterogeneo, ma fortemente motivato,
composto da due pionieri dell’arte astratta quali Atanasio Soldati e Bruno Munari, dal pittore e critico Gillo Dorfles
e dall’architetto Gianni Monnet. Aperti tutti, come quanti in seguito aderiranno al gruppo, al rinnovamento del
linguaggio, con proposte che è probabile abbiano sollecitato, sotto certi aspetti, l’attenzione di Rambelli,
peraltro credibilmente più colpito da certe posizioni “realistiche”.
Da quelle, in particolare, che sfociarono nel marzo 1946 nel Manifesto del Realismo di pittori e
scultori, redatto da Ennio Morlotti e Gianni Testori e da loro firmato con altri artisti in occasione del premio
significativamente intitolato OltreGuernica.
Nel quale, dopo l’asserzione pregiudiziale che “dipingere e scolpire
è per noi atto di partecipazione alla totale realtà degli uomini, in un luogo e in un tempo determinato, realtà che
è contemporaneità e che nel suo susseguirsi è storia”, si affermava, con uno scarto dalle posizioni subito
precedenti del medesimo Morlotti e di altri sottoscrittori, che: “Realismo non vuol dire […] naturalismo o
verismo o espressionismo, ma il reale concretizzato dell’uno, quando determina, partecipa, coincide ed
equivale con il reale degli altri, quando diventa, insomma, misura comune rispetto alla realtà stessa”.
“[…] Misura comune [che] non sottintende una comune sottomissione a canoni prestabiliti, cioè una nuova
accademia, ma l’elaborazione in comune di identiche premesse formali [che] ci sono state fornite, in pittura,
dal processo che da Cézanne va al fauvismo (ritrovamento dell’origine del colore) e al cubismo (ritrovamento
dell’origine strutturale)”.
“I mezzi espressivi”, continuava il Manifesto, “sono dunque: linea, piano, anziché modulato e
modellato; ragioni del quadro e ritmo, anziché prospettiva e spazio prospettico; colore in sé,
nelle sue leggi e nelle sue prerogative, anziché tono, ambiente, atmosfera.
La scultura non ha avuto
un processo parallelo: chiusi con Michelangelo i cicli delle grandi civiltà, essa ha tuttavia
continuato, estenuando i caratteri peculiari, fino all’impressionismo (Medardo Rosso) che segna
l’estrema contraddizione con se stessa. Oggi affermiamo che i suoi mezzi espressivi sono:
costruzione e architettura dei volumi nello spazio, costruzione e architettura che determinano
il peso”.
Asserzioni che troveranno corrispondenza nelle opere dell’ultimo decennio di attività,
dal 1966, di Rambelli, negli anni cinquanta in linea piuttosto col richiamo a Cézanne e anche al
cubismo in chiave di “ritrovamento dell’origine strutturale”. Già accolto, forse, in ciò che il
nostro artista potrebbe aver realizzato, proprio a Milano, in pittura e nel disegno (non se ne ha
però sinora traccia documentata) nella seconda metà degli anni quaranta, a giudicare dal dipinto
I bevitori (fig.1),
datato 1951, con due popolani all’osteria fermati architettonicamente da linee decise, rette e
diagonali, che ritmano l’immagine con robusta energia plastica, esaltata dal braccio piegato
ad angolo retto della figura in primo piano e dal sovrastante, oggettivo, busto dell’altro
personaggio, abbandonato pesantemente sullo spesso tavolo in legno, su cui è appoggiata una
bottiglia di vino geometricamente astratta, veramente cézanniana, come del resto il braccio e
la mano della prima delle due figure.
Non diversamente che in Gesto antico (fig.2),
databile al 1953, che - osservavo una dozzina d’anni fa, scrivendo di questo trascurato periodo
abruzzese di Rambelli -“si impone per la larga, possente definizione dei volumi: da scultore,
quasi, verrebbe da dire, più che da pittore.
La figura, dalle grandi mani, chiusa in se stessa,
riempie quasi tutta la superficie, inquadrata da essenziali riferimenti ambientali”.
Analogo il personaggio centrale di un altro quadro, del 1955, presentato in questa retrospettiva,
Il crumiro,
che richiama il maestro di Aix anche nella pennellata franta e luminosa della camicia.
Mentre le figure in secondo piano, ai due lati, sono più rigide, e come allungate, non diversamente
da quelle dei due dipinti, ancora del 1955, che accompagnano in mostra Il crumiro: I disoccupati,
lavoratori attestanti la loro dura condizione nella secchezza dei corpi e nella corrucciata
amarezza dei volti, e Lo sciopero dei professori,
in cui i dimostranti, salvo che nel possente
braccio appoggiato sul capo di un giovane che fa da quinta sul margine destro, sono come
schematizzati, quasi delle silhouettes, che, nella differenza, e soprattutto nella donna colta di
profilo, fanno pensare a Schlemmer.
Dipinti tutti in cui gli stessi soggetti – il lavoro,
i lavoratori, le loro difficoltà e rivendicazioni – sono in sintonia col citato Manifesto del 1946,
che in apertura recita: “Dipingere e scolpire è per noi atto di partecipazione alla totale realtà
degli uomini, in un luogo e in un tempo determinato, realtà che è contemporaneità e che nel suo
susseguirsi è storia”.
Lo spessore contenutistico resta quindi fondamentale, sempre però risolto in una severa struttura.
Fuori perciò delle cadute descrittive e delle amplificazioni didattico-propagandistiche che
insidiavano molti suoi coetanei animati dalle medesime aspirazioni egualitarie.
Grazie anche proprio, credo, al contesto geografico-antropologico in cui Rambelli risiedeva, lontano
dal rumore della metropoli, dalle sue accerchianti stimolazioni emotive, sul registro medesimo della
“partecipazione alla totale realtà degli uomini” postulata dalle appena ricordate parole
del Manifesto. Il “luogo e il tempo determinato”, la “realtà che è contemporaneità e che nel suo
susseguirsi è storia” in cui vivere, infine, potevano ben essere quelli dei monti e delle valli che
l’artista porta in quel decennio sulla tela, in una serie di paesaggi – noti, a me almeno, solo
attraverso fotografie – nei quali è operata una sintesi estrema dei dati naturalistici, ripresi
nella loro sostanza tettonica, così come i riferimenti a strade e case sono spogliati da accidenti.
Non che Amilcare si sia chiuso in quella realtà ancora, in parte almeno, arcaica.
Diverso è il suo modo di guardare e di valutare, ma lo sguardo continua ad essere rivolto anche
al divenire dei problemi dell’arte e ai centri in cui esso si svolge, nella più vicina Roma,
in primo luogo, oltre che Milano, per quanto concerne l’Italia.
E appunto a Roma,
nella Galleria Marguttiana, apre nel 1955 e nel 1957 due personali, dopo del resto rare precedenti
uscite in spazi locali, nel 1953 nel Circolo Teramano e l’anno dopo, sempre a Teramo, in quello
della Stampa. Le mostre romane, oltre a offrire a Rambelli l’occasione di un contatto più stringente
col milieu artistico della capitale, lo fanno conoscere ad un pubblico di intenditori più largo.
Anche la critica specialistica si mostra interessata. Recensiscono tra gli altri le personali
Marcello Venturoli, Lorenza Trucchi, Michele Biancale, Mauro Innocenti, Cesare Giulio Viola e lo
stesso Filiberto Menna, destinato a divenire uno dei protagonisti della critica nazionale .
La prima metà degli anni sessanta. Le terrecotte. L’Informale
Nel 1959, sappiamo, Rambelli torna a Milano. Ma solo nel 1962 si presenta pubblicamente in una personale
nella Galleria Pater di via Borgonuovo, privilegiata, con la Galleria Azimut di Castellani e Manzoni, da
alcuni dei giovani più promettenti. Nel gennaio 1960 vi espongono Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo
e Gabriele Devecchi, fondatori del Gruppo cinetico-visuale “T”. E’ la loro prima mostra, intitolata Miriorama 1,
seguita nei mesi successivi, fino ad aprile, da altre cinque, sempre con la medesima titolazione accompagnata dal
numero progressivo, da 2 a 6: quattro personali dei primi membri e, in aprile, una nuova collettiva, questa volta
comprendente anche Grazia Varisco, che fece allora il suo ingresso nel gruppo.
In quella sede prestigiosa Rambelli
presenta delle terrecotte matericamente lievitanti e nel contempo misurate, frutto certo della sua ricerca ultima,
svolta in frizione col ribollente e variegato clima milanese del dopo-oltre-informale, quello medesimo degli autori
del Gruppo T, ma preparate dal vigile ritiro abruzzese, di cui s’è appena detto. E del quale si deve tener conto,
per meglio entrare non solo nel processo da Rambelli adottato, ma negli stessi suoi esiti, quanto mai autonomi,
irriducibili com’erano ad altre esperienze.
Come tutti notammo, ricordo, visitando l’inusitata personale, che
tuttavia, proprio per la congiuntura che allora si viveva, poteva essere – e, credo, in effetti sia stata – vista
in una prospettiva per lo più troppo univoca, per l’ovvio peso dei pressanti rimandi culturali che quella matericità
germinale comportava, nel suo stesso interno organizzarsi, allora d’attualità (si pensi anche solo al caso macroscopico
di Burri), e per la svolta medesima, apparentemente radicale, in essa attuata dall’artista, oltre tutto ai più pressoché
sconosciuto, che induceva a un giudizio attestato solo su ciò che la mostra offriva, avulso da qualsivoglia altra considerazione.
Lo stesso Rambelli, ricordavo nel succitato mio vecchio (ma sempre molto posteriore all’apparire delle prime terrecotte
dell’artista) testo, ha invece voluto sottolineare il nesso diretto tra i sommovimenti operati nel terreno del greto del
Vomano dai grilli talpa, da lui osservati ripetutamente, e i corrugamenti, le lacerazioni, i solchi, del tutto, proprio,
tellurici, delle sue sculture.
Per altro verso, come s’è sopra cercato di suggerire, è sempre nel decennio abruzzese che
si sedimenta la propensione strutturante dell’artista, anche nel dipingere soggetti di una elementare, primigenia quasi,
naturalità, come in certe immagini di animali . Ma il retaggio di quel prolungato risiedere nel teramano è qualcosa di
meno circoscritto della memoria del greto di un fiume e di qualsiasi problema di forma,
comportando esso una problematicità dubbiosa di fondo sul senso e i modi dell’arte di fronte alla contemporaneità,
come ha di recente cercato di evidenziare, oltre l’abituale conclusa circolarità delle argomentazioni, Maurizio Vitta.
Che ha risolutamente ribadito quale “punto di avvio del lavoro di Rambelli” gli “anni cinquanta, con la solitaria
permanenza in Abruzzo”, precisando che la “la scelta dell’isolamento in un territorio a metà strada tra la montagna e
il mare, non ancora lambito dalla frenetica crescita economica, fu solo in apparenza romantica: in essa sono
individuabili i caratteri di una cultura allora diffusa, venata di populismo, che ricercava nelle matrici contadine
la direzione di un riscatto politico le cui sorti si decidevano in realtà altrove; ma vi si legge anche una presa
di distanza che proprio l’isolamento, inteso come ricerca di una verifica definitiva, tendeva a sottolineare”.
“Il confronto con la realtà popolare, filtrato attraverso i canoni di un ‘realismo’ sempre incerto tra ingenuità
naturalistica e sprezzatura espressionistica, tra ideologia e sentimento, fu caposaldo”, prosegue Vitta,
“dell’esperienza artistica italiana di quegli anni, grazie alla quale, come scrisse il miglior Asor Rosa,
quello di Scrittori e popolo, ‘non ci si è accorti che, in nome del popolo e delle sue eterne benemerenze,
si perdeva sempre l’occasione di creare una seria, consapevole, critica letteratura del mondo contemporaneo,
così come esso è …’.
Ma per l’appunto fu questo il dubbio di cui Amilcare Rambelli si nutrì fin verso la fine
degli anni cinquanta, nel periodo passato a scandagliare le possibilità di un figurativismo già allora sospettato
di maniera, fino ad averne ben chiara l’impotenza dinanzi a quel ‘mondo contemporaneo’ che costituiva, quantunque
ancora larvatamente, l’obbiettivo della sua ricerca artistica”. Per cui, sempre secondo Vitta, “il trasferimento
a Milano non costituì una cesura rispetto a quella esperienza. Ne fu anzi, in certo modo, lo sviluppo. I primi
passi di Rambelli nella nuova realtà coincisero con il crepuscolo dell’Informale, le cui propaggini estreme erano
tuttavia ancora abbastanza vitali da dar corpo ai suoi dubbi e a indicare un percorso praticabile per il loro
dissolvimento.
L’Informale era già una generica etichetta applicata a ricerche assai varie, più o meno riconducibili
a una certa ‘situazione di crisi dell’arte’ che si volle allora evocare. Ma l’intuizione che ne fondò i presupposti
culturali fu quella del rapporto diretto e, in un certo senso, disperato con la materia. Da semplice strumento per
interpretare il mondo la materia divenne di colpo, in quelle ricerche, il mondo stesso. Frugata, sondata, violentata
nelle sue tensioni più segrete, essa si fece segnale di una condizione storica nella quale la contemporaneità vide
riflesse le sue immagini più inquietanti.
Rambelli interpretò l’informale a partire proprio da questa intuizione.
Egli fu pronto ad affrontare la materia sul suo terreno più impervio – quello della scultura – perché oscuramente
convinto che l’unico modo per mantenere l’arte all’altezza della contemporaneità fosse quello di forzarla e
ricercarne i fondamenti. Era quello il reale ‘impegno’ maturato nell’isolamento abruzzese: non la rappresentazione,
bensì la destrutturazione delle immagini e dei corpi, mirante al crudo disvelamento della loro sfuggente organicità
e del loro continuo evolversi in forme e significati inafferrabili”.
Mi scuso per la lunga citazione.
Ma il testo di Vitta è tutt’altro che facilmente reperibile, e le sue argomentazioni possono innescare,
nella loro radicalità, considerazioni utili ad incrinare la consueta, ormai, cristallizazione del giudizio
sulle terrecotte di Rambelli del triennio 1962-1964 (quelle collocabili tra la ricordata mostra da Pater del
1962 e la prima mostra nella Galleria Pagani del Grattacielo, sempre a Milano, nel 1964).
Infatti, se quel
che il critico afferma con tanta assolutezza è vero, da un canto viene rivalutata l’ ”attualità”, sia pure
in rapporto solo all’autore stesso, del materismo di Rambelli, che, sempre secondo l’analisi di Vitta, riproporrebbe
quell’informale originario, dirompente, che costituì una vera frattura nella storia dell’arte, maturata, non a caso,
nel pieno degli orrori della seconda guerra mondiale o in loro conseguenza. Quello, cioè, del Fautrier degli Otages,
del 1943-45, appunto. O quello dei Valori selvaggi (come recita il titolo di un famoso testo dell’artista) di Jean
Dubuffet, ugualmente eversivo, nella sua carica “anticulturale”.
Poste così le cose, Rambelli, per la forza del proprio affondo nel magma originario, resterebbe immune dall’arenarsi
dell’informale nella palude di un epigonismo demotivato, solo, in sostanza, formale, anzi formalistico, e quindi in
plateale contrasto con la medesima denominazione corrente di quella tendenza-situazione, che fu, certo, una galassia,
non qualcosa di definito, di chiuso, all’insegna peraltro sempre d’una dimensione “autre”, secondo la definizione di
Michel Tapié, suo teorico e protagonista.
Realizzerebbe però in ogni caso, Rambelli, le sue terrecotte con un nettissimo
sfasamento cronologico nei confronti delle posizioni radicali di venti o quindici anni prima, restando anche estraneo al suo tempo.
Come invece Rambelli non fu, nel plasmare le sue terrecotte della prima metà degli anni sessanta. Così come fuori del suo tempo
non lo era stato nell’ “isolamento” abruzzese. Dove aveva eseguito, anche allora, opere “non attuali”, ma innervate, s’è cercato di
evidenziarlo, di un’interrogatività che le portava su di un piano di ricerca ancora incerto, ma, esso sì, attuale. Come, ma ad un
livello di coscienza e di qualità ben maggiore, quello da cui nascono le terrecotte esposte nel 1962 e nell’anno seguente,
sempre da Pater, delle quali ultime scrive Emilio Tadini , avvertendo con acutezza il definirsi della dialettica interna
alla scultura, tra organicità e architettonicità, che con gli anni porterà rapidamente Amilcare ad eccellere, per lucidità
teorica e innovatività di risultati.
Dialettica che in questa fase vede protagonista, con la struttura, la materia, che la
tesi di Vitta finisce, a dispetto delle intenzioni , con l’esaltare nei suoi valori primordiali, antistorici. Mentre Tadini,
evidenziata la flagranza delle due suddette polarità, la loro necessaria, mobile interdipendenza, conclude opportunamente
sottolineando la determinatezza dei risultati, nei quali, “sempre, il puro valore plastico in cui chi guarda crede per un
attimo di poter risolvere il senso [delle] sculture finisce per lasciare il posto ad un altro valore: alla complessa unità
di un accadimento concreto, che vive nel racconto”. Esito che, attraverso la fattualità medesima, intenzionalmente determinante
in queste opere, non a caso plasmate fabbrilmente nella terra, preserva il richiamo dell’informale alla realtà primaria,
non rifiutando tuttavia l’intervento progettuale (come, al proposito, provano risolutivamente, nell’intera attività di
Rambelli, i numerosissimi studi preparatori), con un fare calcolato, quindi anche razionale, non solo istintuale.
In sintonia, anche ciò, con la concretezza del partecipare alle coordinate temporali, e quindi anche culturali
(ché l’arte, per citare un grande studioso come Gorge Kubler, è La forma del tempo), della congiuntura in cui
quelle opere nascevano. All’insegna, si potrebbe dire, mutuando una coeva definizione di Carlo Giulio Argan in
Progetto e destino, non più del “progetto in arte”, ma dell’ ”arte in progetto”, con un sostanziale spostamento
dell’accento sulla compromissione, anche proprio esistenziale, di un fare che non rinunci alla propositività dell’intervento intenzionale.
Ed è siffatta comprensività di ideare, pensare e fare che spiega l’evoluzione veloce, nel suo
arricchimento immaginativo e formale,
della scultura di Amilcare, che si svolge dalle sintesi un po’
forzate e sommarie dei lavori del 1962 – come, ad esempio,
Ascolto di poeta, Martirio o Meridiana ferita, questa presente in mostra
– all’equilibrato comporsi di urgenze materico-organiche con “un intimo sistema organico,
una serrata ‘logica fisiologica’ ”, rilevato da Tadini nel testo citato.
Diagnosi confermata,
seppure a posteriori, da Enrico Crispolti , che introducendo nel 1967, nella Galleria Pagani
del Grattacielo a Milano, una mostra di Rambelli, ormai, come si vedrà, ancora più avanti nella
sua ricerca, ricordava “di aver notato le sculture […] di Rambelli in occasione della sua prima
personale, a Milano, alla Pater, nel ’62: ammassi di materia, schiacciata, e disposta secondo
configurazioni elementari e primarie, percorse tuttavia in superficie da tutta una vita, diciamo
tissulare, di segni, incisioni, escrescenze, scabrosità, orientate anch’esse secondo andamenti
elementari e primari”. “Quelle terrecotte”, aggiungeva, “mi attrassero per una loro indubbia
consistenza plastica, e tuttavia non arrivavano a convincermi interamente per una ancor troppo
embrionale (o tale comunque risultava alla mia lettura) definizione delle loro intenzioni figurali”.
Mentre, è ancora Crispolti nel medesimo testo, “appena poco meno d’un anno più tardi, ripresentandosi
in una nuova personale alla Pater, Rambelli dimostrava che [le sue] ispezioni [sulla materia] avevano
già dato esiti ulteriori, nuovi: oltre la rugosità e l’intrico segnico arcanamente indefinito della superficie,
urgevano fasci organici, bulbi, embrioni: la terra prendeva corpo, accettava il veicolo della
metamorfosi organica, accresceva la propria dimensione, non solo terra, ma vitalità generante,
organismo respirante e vivo, pur se ctonio, d’una tellurica visceralità”.
Registravo anch’io, in quel medesimo anno, tale maturazione, sulla base anche di frequentazioni
sempre più fitte e intense dell’artista e del suo studio, che si protrarranno fino all’improvvisa
sua scomparsa.
Rilevavo allora – nel catalogo del 15° Premio Lissone, nella cui mostra avevo inserito
Rambelli in una speciale sezione di 10 scultori italiani d’oggi, accanto, tra gli altri,
ad Alik Cavaliere, Gino Marotta, Augusto Perez, Francesco Somaini, Giuseppe Spagnulo e Valeriano
Trebbiani – il suo trar frutto dalla lezione informale nel proporre in scultura il multiforme
essere delle cose attraverso “una plastica scabra, essenziale, condotta con energia, ma anche
sempre ‘controllata’: non però per un intervento determinante dell’autore, ma per l’affiorare
di una misura naturale, consustanziale alla materia, dalla quale lo scultore riusciva a farla
emergere.
Una ‘misura, quindi, che non ha nulla a che spartire con astratti concetti di equilibrio
e armonia: che, anzi, può coesistere con i fenomeni meno pacati: con il fendersi lento
e l’allarmante slabbrarsi delle superfici, come rose da un male inarrestabile, nelle prime opere,
e poi con l’aggrovigliarsi turgido di sostanze organiche e con il loro spaccarsi, per cui, anche
quando ciò che viene proposto è l’uscire faticoso di fibre palpitanti da un tessuto rigido
ed opaco […], anche allora la sensazione è quella di assistere ad un evento naturale”.
Dove, lo si coglieva con chiarezza nell’insieme del testo, quel “non però per un intervento
determinante dell’autore” non negava l’intervento dell’artista in quanto tale, ma appunto
ne sottolineava l’inerenza alla materia, in una dimensione di immagine, altra quindi, come del
resto è ovvio, da quella naturale, ché l’immagine non è, non può essere la cosa.
“L’unico segreto di questa ‘naturalezza’, che dà alle opere di Rambelli il loro tono fondamentale,
è insomma la capacità di registrare lo ‘spazio dell’immagine’ ”, affermavo infatti concludendo quelle
argomentazioni, rilevando nelle opere stesse “l’assenza di violenti scardinamenti, come di
accomodanti elegie”. E qui facevo mie le riserve avanzate da Crispolti sul termine “piaghe”,
nel senso attribuitogli da Kaisserlian di “ferite che fanno soffrire e sanguinare”, perché,
osservava il critico romano, “non vorrei che il riferimento alle ‘piaghe’ sviasse, magari
idealmente riferito alla misura [di “desolazione e di morte”, secondo Mandriargues, citato da
Crispolti] che hanno assunto nell’intrusione materica profonda, di organismo vivo leso, e
strappato, in particolare nelle ‘plastiche’ di Burri , oppure al contrario, libero da così
imponente responsabilità esistenziale, magari riferito invece all’esposizione drammatica d’un
sapiente esito fabbrile, come negli strappi multipli stratificati, dei metalli di un Pierluca.
Ancora una volta infatti Rambelli è in condizione di ‘ascolto’, di ‘lettura’ ispettiva: una ‘lettura’
tuttavia che ha superato il limite della tissularità di superficie, s’è fatta appunto plastica, se così
si può dire, tattile, attiva, palpante, nell’inseguire appunto gangli, fibre organiche, pulsanti, ed
in espansione, nel seno stesso della primaria materia terrena” .
Nello stesso testo, e ancora in dialogo con Kaisserlian, Crispolti dissentiva fondatamente sull’avvicinamento
delle opere di Rambelli alle Nature di Fontana, il quale “riscattava un gesto elementare e primario qual è
quello di incidere e colpire la materia”, mentre “il tessuto di segni e di emergenze arcane della superficie
delle terrecotte di Rambelli era invece soprattutto l’imminenza del gravitare di una ricchezza interna alla
materia stessa, alla materia più elementare, la terra generante”.
Del critico milanese, Crispolti accoglieva
al contrario, per le “ferite” di Rambelli, la connotazione di “esplosivo inno alla vita”, che credo impropria,
come, fin da allora, mi sembrava confermassero le opere degli anni immediatamente successivi, costitutivamente
problematiche nell’ispirazione tematica e nella ricerca strutturale, con una nuova articolazione nello spazio,
oltre la programmatica elementarità e la compatta organizzazione plastica che restano ancora primari nella già
ricordata, importante personale aperta all’inizio del 1964 nella Galleria Pagani del Grattacielo a Milano,
conclusione, in un certo senso, della fase inaugurata dalla mostra del 1962 da Pater. Le sculture allora
esposte attestavano infatti nella perentorietà dei manufatti una maturità raggiunta entro le coordinate
ormai consuete, con risultati di rilevante perfezione nell’immagine sedimentata, come nella tecnica
esecutiva, che consentiva l’adozione di dimensioni impegnative. Che potevano d’altronde favorire un
certo raffreddamento della dinamica interna alle forme ovoidali, talora tendenti alla circolarità,
con un’ulteriore chiusura, riscontrabile anche nei lavori impostati su di un piano rettangolare di fondo,
in una qual classica assolutezza. Rotta tuttavia nel medesimo anno attraverso l’adozione di una scala
monumentale nell’imponente opera, di cui offriamo in queste pagine la riproduzione,
Conseguenze contemporanee,
di m 9,50 di larghezza per 2,9 di altezza e 2,5 di profondità, costruita in ferro-cemento per il Parco Museo Pagani di Legnano.
Le cui mobili strutture orizzontali –degli enormi condotti intestinali, o delle altrettanto gigantesche conformazioni ossee–
strette dal colossale involucro a fuso, squarciato nella parte anteriore dall’urgere della forza centrifuga interna,
fanno presentire, pur senza stravolgere i termini operativi consueti, il cambiamento che va preparandosi in quel medesimo
anno e nel successivo, per definirsi nella seconda metà del decennio. Ne annuncia, anzi, taluni aspetti primari,
nell’ingombro spaziale, soprattutto, e nella vivacizzazione energetica, oltre che nell’ancor velato affacciarsi
di un’inedita tematica macchinista, prefigurata nelle suddette strutture spiraliformi, quasi, ormai, dei congegni proprio meccanici.
Naturale e artificiale, struttura e spazio, o della dialettica nella discontinuità.
L’applicazione a soggetti non più solo interni alla sostanza tellurica e germinale, affacciatasi nel 1964 (così, ad esempio, in
Le persecuzioni,
ove, però ancora attestata su di supporto piano, una coppia di piccoli viluppi organici dialoga
con altrettanti, ma dominanti per le misure ben maggiori, dischi circolari geometricamente
definiti agganciati a dei perni e segnati all’interno da fitti raggi, in forma di vere e proprie
ruote, va precisandosi e imponendosi in Rambelli tra il 1965 e il 1967.
Con la conseguenza d’una più diramata articolazione di contenuti, dall’universo naturale,
prima esclusivo, ad una dimensione che guarda oltre di esso, verso l’artificiale, il costruito,
il meccanico anche, appunto, per inglobarlo problematicamente in un “racconto” maggiormente
comprensivo e complesso, col flagrante inserimento nello spazio delle forme, ora soprattutto
fuse in bronzo.
Rambelli attua in tal modo un sostanziale cambiamento di rotta, ideativo e formativo,
presto riconosciuto dalla critica nel suo rilievo sperimentale e propositivo, nell’ambito della
ridiscussione statutaria del linguaggio della scultura cui si accennava iniziando queste righe.
Così io stesso esponevo nel 1967 nel ricordato Premio Lissone tre eccezionali frutti di quella nuova
fervida congiuntura: Condizione figurale, presentata in questa retrospettiva col titolo Ascolto,
Corruttore e Vangelo, per usare i titoli allora attribuiti dall’autore, che datava le sculture
rispettivamente al 1965-66 (le prime due, poi riferite dallo stesso artista al solo 1966 ) e al 1967
(la terza); opere in cui, sottolineavo nel testo di accompagnamento, “protagonisti dei suoi lavori
non sono più solo tessuti organici né materiali colti in germinazioni elementari”, essendosi,
“ad essi aggiunti – non tuttavia sostituiti – espliciti richiami ad una tematica nuova: quella della
macchina” con, “in genere, […] un passaggio dall’imprecisato al determinato, dal semplice al
complesso, […] che ha coinvolto la struttura stessa delle sue creazioni, ora non più concluse in
un unico nucleo –in cui erano precedentemente costretti e il lento divenire della materia e lo
stesso contrastato opporsi di figure–, ma largamente dislocate nello spazio: uno spazio che però
non è diventato scenografico, ma che continua a conservare, pur nell’esplicita volontà di ‘racconto’,
il suo carattere di ‘naturalità’, essendo ancora determinato dalle cose e non sovrapposto ad esse”.
Analogamente, sempre nel 1967, Crispolti – che ancora nel 1965 aveva collocato le terrecotte di
Amilcare in Alternative Attuali 2 a L’Aquila nella sezione intitolata a “Le forze della natura”
–scriveva che “le nuove sculture [di Rambelli] hanno rotto anzitutto l’univocità plastica come
massa unitaria” e che, “secondo un’apertura che è di proposte fra le più interessanti della nuova
scultura, non solo in Europa, [l’artista] ha dislocato i propri elementi in un contesto diramato,
articolato appunto nello spazio.
Ma per fare ciò occorreva che ogni elemento acquistasse una
propria distinta fisionomia, un proprio ruolo distinto: occorreva anzitutto prescindere non solo
dall’univocità della scultura come monomassa (se così si può dire), ma anche dall’univocità
dell’imagerie organicistica, fissa a temi di bulbi, embrioni, trame muscolari, ecc.
E accampandosi con nuova autorità di possesso entro lo spazio, per inclusione dialettica
(anziché per esclusione, in senso tradizionale, come prima), queste nuove sculture di
Rambelli hanno acquistato una concretezza non solo d’accadimento ma di presenza fascinatoria e
allarmante, nuovissima e di forte efficacia”.
Crispolti riportava quindi una testimonianza inviatagli dall’artista in relazione alle opere del
1966-67, che vale la pena di riportare.
“Ritengo che a me interessi”, affermava lo scultore,
“assai più la realtà che il sogno, e se nell’immagine costruita l’assurdo prende, ovviamente,
aspetti surreali, ciò è verificabile anche nella resa dell’incredibilità di un certo ‘vero’ e dei
suoi significati. Mi pare che l’interesse per questa incredibilità e per questo ‘vero’ sia più forte
in me della mia voglia di evadere o di interpretarli.
Di interpretarli, intendo, con la pretesa di
inserirli in un ‘mio mondo’ o in un ordine di miei ‘preconcetti’ poetici. I simboli ottenuti per
mezzo di quello che io considero un atto di anologia costruttiva mi hanno indicato le loro
possibilità, mi hanno imposto via via l’ordine di un loro sviluppo e mi propongono le loro
necessità nuove.
Con il mio lavoro ho avuto delle tensioni e delle forze nella materia, poi mi si
sono organizzate delle forme – delle forme con possibilità espressive, o solo allusive, con delle
indicazioni di moto: come rappresentazioni attive. Oggi ho delle sculture che, a
volte, sono degli ambienti”.
Il “nuovo corso” di Rambelli iniziò a prender corpo in forme prima inusitate, quali ruote, semisfere,
cilindri ed assi squadrati, già, come s’è sopra ricordato, in rare terracotte e bronzi
dell’avanzato 1964, quale il citato Le persecuzioni, e quindi in bronzi del 1965
(tra essi, in mostra, Fiducia)
e, in quantità maggiore, del 1966. Definiti, questi ultimi, da elementi sempre più nettamente
sagomati, taglienti e dotati di una scattante rigidità. Si veda al proposito, sempre tra le opere
esposte in questa retrospettiva, quel vero capolavoro che è Condizione figurale-Ascolto, dalle
risonanze arcane, cariche di evocatività, che paiono giustificare l’attribuzione del secondo
titolo a Rambelli medesimo , o l’ancora più meccanica creazione in verticale in acciaio, oltre
che in bronzo, coerentemente con gli attributi dell’immagine, che, qui come altrove, postulava
il ricorso a materiali più duri e “secchi” non solo della terracotta, ma dello stesso bronzo.
Come esemplarmente si può constatare nell’alta e possente “figura” meccano-antropomorfa in
ferro-cemento, di m 3.50 x 2.50 x 2.50, sempre del 1966, installata ad Abano di fronte
all’Hotel Mioni.
Realizzazione magistrale, che, per il medesimo suo impatto fisico con l’ambiente, si impone
inevitabilmente all’attenzione di chi, anche distratto o non interessato, si trova ad “incontrarsi”,
o “scontrarsi”, con essa, nel suo inglobare e insieme invadere, modificandolo, lo spazio circostante.
Con un effetto calcolato da Rambelli, sempre più sensibile, in queste sue nuove ricerche, alla sistemazione
pubblica della scultura e alla connesse possibili funzioni, come provano tra l’altro alcune acute e illuminanti,
quanto sconosciute, osservazioni che l’artista scrisse, su mia richiesta, per il citato catalogo del Premio Lissone.
“Se viene considerata al di là delle ‘mansuetudini culturali’ che con diverse forme si insediano anche negli azzardi”,
premette Rambelli con un linguaggio un poco contorto e sforzato, “la scultura si dimostra così come si pone nella realtà:
assai semplicemente, con il suo ostico e materiale carattere di ingombro. Quando poi è davvero concepita al di là, o al
limite delle assuefazioni ai fenomeni che si fanno via via più mansueti e consueti, la scultura si propone con una
sua entità non prevedibile né riconoscibile: solo con una sua caparbia ragione d’essere e di permanere in concreto.
Si potrebbe anche dire che tanto avviene per virtù di qualità peculiari con le quali l’opera riconferma, appunto,
i valori noti del suo linguaggio; ma questo riporterebbe alla inattuale circostanza del credito di cui godette
il capolavoro d’arte”. “Per quello invece che riguarda la scultura del nostro tempo, spoglia di tanti pregiudizi
e presupposti, profusamente demitizzata”, afferma poi Rambelli, “io credo che in essa, ormai, si possa proprio
rintracciare, più che una elementare, una terrena verità d’origine. Mi pare naturale infatti che la scultura,
proprio perché nasce come ‘forma in concreto’, nasca con il problema stesso della propria collocazione e che,
nel medesimo tempo, generi l’impegno (non tanto semplice come sembra) di una convinta accettazione, o di un
responsabile rifiuto da parte di chi se la trova di fronte come inspiegabile intralcio. Proprio in seno a
questa parte (a cui non è sempre estraneo lo stesso scultore) la risoluzione potrebbe facilmente scaturire
col trovare di nuovo possibile, ancora accettabile e poi anche giusto coabitare con la scultura”.
Rambelli coglie, come si vede, la difficoltà ardua, l’impossibilità quasi, di “collocare” la scultura.
Problema, questo, che ha occupato e preoccupato generazioni di scultori, negli anni venti e trenta
del Novecento in particolare, e poi, con accenti diversi (ma non sempre), anche nel secondo dopoguerra,
a partire, per restare in Italia, dal caso sommo de La scultura lingua morta di Arturo Martini, adombrato
anche in un passo di questo intervento del nostro scultore. Secondo il quale “la scultura, […] per oggi,
continua sostanzialmente a realizzarsi come proprio contenuto: come perentorio ingombro; e vi è costretta,
anche nel caso che di contenuti non voglia averne affatto, o pretenda di averne d’altro genere e di più complessi”.
“Ma”, aggiunge Rambelli, concludendo la sua argomentazione, “se […] la scultura davvero propone un problema di forma e
di spazio, io ritengo che ai nostri giorni la forma risulti naturalmente ostile al proprio spazio e ritengo che sia
altrettanto naturale che essa si adoperi anche nell’ordine, ma proprio per contraddirlo e per violarlo. Agendo così,
come proiezione diretta di una sofferta condizione umana, essa forse potrebbe generare una spinta verso più vivi motivi
di esperienza, ma anche verso nuove responsabilità di indagine e di conoscenza. Una volta che la forma raggiungesse questa
responsabile e attiva efficienza, le sculture si collocherebbero forse ‘con logica’, ossia con un diritto anche civile,
oltre che terreno e umano, tra i frutti delle professioni ‘utili’“.
C’è, in questa presa di posizione, una carica propositiva in chiave non solo estetica da tenere ben presente anche nel
valutare le sculture di Rambelli di minori dimensioni, destinate sì ad una fruizione privata, ma esse pure portatrici,
nella forma, di un messaggio che in essa non si esaurisce. Nasce di qui, non da abitudini o citazionismi, il persistere
nelle sculture dell’artista, fino alla conclusione del suo cammino, della presenza di elementi materico-organici,
più o meno discreti o evidenti: nel loro confrontarsi discreto, in genere, col polo geometrico-costruttivo, che si
farà più evidente dalla fine degli anni sessanta, nei settanta soprattutto, nel ricorso a materiali tecnologici,
e addirittura con rimandi ad una progettualità di marca costruttivista, oltre che a una processualità che può chiamare
in causa l’architettura, e persino il design; o invece con una presenza più manifesta, come nella scultura per Abano,
o, più ancora, in quella gigantesca, abitabile e funzionalmente polidimensionale – per più ragioni di un rilievo
eccezionale, che non ha purtroppo il posto che meriterebbe nella storia dell’arte della seconda metà del secolo
scorso, anche per l’imperante disinformazione nei confronti di quanto non è divulgato dai media di massa e per
quella sorta di Alzheimer precoce perniciosamente diffuso tra i giovani studiosi – realizzata in
ferro-gesso-alluminio nel 1966 per il Padiglione della Manifattura Ceramica Pozzi alla 44ª Fiera di Milano .
Nella quale, proprio anche per la sua collocazione, e per il suo prestarsi a dar sostanza nella sua stessa forma al
messaggio pubblicitario-promozionale di un’industria, si coglie la temperatura reale del richiamo di Rambelli alla
dimensione naturale, simboleggiata da grumi e viluppi germinali, dialoganti con l’arficialità della civiltà della
tecnica in cui viviamo. Che non è di contrapposizione radicale, di negazione a priori dei portati della modernità,
anche se in un primo tempo, nel passaggio alla nuova fase inaugurata a metà anni sessanta, Rambelli predilesse una
certa schematicità nel proporre il dualismo informe - “formale”.
Se si considera l’insieme della sua pur multiforme
attività, il rischio “d’essere coinvolto nella condiscendenza per forzosi contenutismi, in fondo riassumibili nell’affermazione
di un irriducibile contrasto tra un ipotizzato ‘bene naturale’ e un astratto ‘male artificiale’ ”, lo scultore lo corse
“più nelle intenzioni che nei fatti”, come ebbi a scrivere io stesso , riferendomi, come già allora riconoscevo,
alla temporanea più netta antitesi suaccennata. Infatti, notavo in quel medesimo testo, “presto, anche se la
primitiva rigidità di contrapposizioni sembrava venir ribadita, ed anzi a dispetto di siffatta esibita riaffermazione,
la ricerca di Rambelli, quale è dato constatare nelle opere, superava nettamente ogni riduzione asseverativa.
Il ricorrente grumo di materia informe che lo scultore proponeva come simbolo di una ‘naturalità vera’ perdeva gradualmente
la sua posizione di isolato ed esclusivo polo positivo, usciva dal limbo irreale in cui poteva averlo portato l’urgenza
dell’impegno contestativo ed entrava, finalmente dialogante, finalmente attivo, nell’insieme”.
Con ciò, sia ben chiaro, non si vuole attenuare lo spessore etico che sempre improntò il lavoro di Rambelli, impedendogli
di arroccarsi su fronti impermeabili al dialogo, che avrebbero ostacolato la libertà, e quindi la fertilità, della ricerca.
Tant’è vero che, nel pieno della predisposizione sperimentale a un registro razional-progettuale, nel medesimo anno, il 1973,
di alcuni rigorosissimi, calibrati, conseguenti Progetti abitati,
esposti in mostra come esemplari di quelle posizioni,
Rambelli tenta l’innesto nelle composizioni “astratte” della figurazione del corpo umano o di alcuni ritratti, in esperimenti
inediti che qui vengono documentati a riprova della disponibilità appunto sperimentale dell’artista. Il registro vero di
Amilcare fu quello della dialettica, come precisò bene Paolo Fossati alla fine del 1968 , puntando sul passaggio dello scultore,
correttamente visto dal critico come arricchimento, dalla dialettica “tra natura e condizione sociale dell’uomo a quella tra
uomo e presenza dell’artificiale”.
Quando, scrive Fossati, “proprio il modo sottile con cui il gioco dialettico è posto,
il contrasto di due entità-forze, offre a Rambelli la soluzione. La macchina, cioè, è sì l’altro, ma lo è nella misura
in cui a forza si oppone forza, ad avvenimento avvenimento, e come nella sua dimensione di alterazione e contraddizione
è anche chiarificazione dei processi organici nella misura in cui li obbliga a rivelarsi di fronte a un’opposizione
e a cesure e non solo di fronte alla propria continuità.
Rambelli comprende che storia non è destino, né lo è la
cronaca, ma è discontinuità, coabitazione di opposti, e che tale coabitazione non è lacerazione ma rilievo di diversa
sostanzialità individualizzata in modi difformi. Quindi ora la sua ricerca è davvero dialettica, continuità-discontinuità,
e non separazione: la contestazione verrà dopo la constatazione dei fatti.
La forma organica è ottusa cristallizzazione
se non può denunciarsi quale presenza di tutte le alterazioni che la concretano all’incontro con le sollecitazioni più
svariate: un incontro che è anche rivelazione e conoscenza”. E’ la chiave per entrare anche negli anni finali
dell’interrotta applicazione di Rambelli, nel pensare e nel fare, alle domande avanzate, in tempi di rifondazione linguistica, dalla scultura.