CARLO MUNARI
Certo sono finiti i tempi delle illusioni
positivistiche; il Progresso non è più il mito
portato sugli altari dalle generazioni
ottocentesche, messianicamente esaltato fra gli
scenari babilonesi delle Esposizioni Universali. La
maschera è caduta, la realtà si è dimostrata più
amara.
Cinquanta e più anni di storia hanno
disincantato un po’ tutti. Nell’insofferenza di una
civiltà dominata dalla ideologia utilitaria, l’uomo
è stato però qualche volta troppo severo nelle sue
accuse contro l’industria. Quel che i padri, del
resto assai ingenuamente, avevano associato al
concetto di Bene, i figli hanno troppo spesso
identificato nel concetto di Male. Alienazione,
incomunicabilità e via di seguito, tutte le malattie
dell’uomo moderno - compresa la disperazione, che
Kierkengaard aveva definito la "malattia mortale" -
venivano fatte risalire per lo più al nuovo Moloch.
Era questo, in definitiva, un atteggiamento di
comodo, e un modo anche di dimenticare le individue
responsabilità. Un atteggiamento vano, dopotutto,
dal momento che non teneva conto della realtà
esterna, impossibile ad essere mutata. Fu merito di
una breve "élite" d’avanguardia essersi impegnata in
un diverso rapporto nei confronti dell’Industria,
scavalcando ogni posizione manichea.
Questa "élite"
aveva compreso ch’era scattato il tempo per un
incontro spregiudicato e attivo. L’azione si rivelò
di estrema importanza. Lacerò le vecchie mitologie,
annientò assurde contrapposizioni, disciolse
pericolose incrostazioni, lumeggiò la stessa
funzione dell’Industria nel contesto sociale. A
questa azione, non pochi artisti recarono il proprio
contributo. A tutto questo vien fatto di pensare
osservando ilpadiglione della Manifattura Ceramica
Pozzi alla Fiera di Milano, il quale s’impernia
sulla enorme scultura abitabile progettata ed
eseguita da Amilcare Rambelli.
Al di là dei propri
valori e delle proprie significazioni, questa
scultura si costituisce per davvero come il simbolo
di un incontro avvenuto fra Arte e Industria.
L’artista ha capito lo spirito e le funzioni
dell’industrtia moderna, ed anche il suo potere di
suggestione psichica, e l’industria, a sua volta, ha
capito le esigenze dell’artista, e la facoltà che
gli è propria di "rivelarla" sul piano formale.
Rambelli, nel caso, ha saputo penetrare lo spirito
particolare di una industria modernissima di
impianti ma nel cui ambito all’uomo, più che alla
macchina, è riservato un ruolo primario e, con esso,
gli è garantita una misura umana. Da vari anni
seguiamo l’agire di Rambelli, e non abbiamo avuto
esitazioni nell’indicarlo come uno dei maggiori
esponenti della giovane scultura italiana. Le sue
opere dimostravano in modo palese che egli mai aveva
smarrito la cognizione dell’uomo.
Meglio sarebbe
dire: la "cognizione del dolore". Nelle superfici
tormentate da lacerazioni ed escrescenze, nei vuoti
che improvvisi si aprivano come voragini, nel
magnifico rifluire della luce di materie combuste,
andava ordinandosi un linguaggio di alta qualità
simbolica. Si trattava di un linguaggio che narrava
una vicenda interiore, recuperata negli strati più
profondi dell’io, ma proprio per questo autentica e
persuasiva, illuminante un destino. Era quindi per
certi versi scontato che Rambelli potesse pervenire
a un esito positivo nell’opera realizzata per la
Pozzi. In effetti egli non ha violentato sè stesso.
Ha, più semplicemente, chiarito a sè stesso le
modalità di un rapporto fra l’io e il mondo
tecnologico. Un assunto al quale un uomo che sia
vivo nel suo tempo non può abdicare. La scultura
occupa l’intero spazio interno del padiglione.
Contro il soffitto e il pavimento, entrambi di
lucidissimo smagliante alluminio, questo poderoso
congegno plastico lungo trentadue metri si situa,
con il biancore del suo gesso, come una presenza
terribile e, insieme, meravigliosa.
Impostata su un
incalzante concatenarsi di simboli, di emblemi e di
forme allusive, essa non rappresenta, bensì
significa un processo produttivo. Vi si scorgono
forme che rammemorano piatti in lavrazione presso il
tornio, lunghi nastri colossali, spirali
enigmatiche. E, a conclusione, il complicato
organismo - caratterizzato da una dinamica di spinte
e controspinte, di percorsi lineari ondulati e di
scatti repentini e acutissimi - si placa nella
quiete di una grande conchiglia, così come l’antica
basilica si concludeva gloriosamente nel bacinno
absidale. E’ dunque la scultura che condiziona lo
spazio, non viceversa. Ed è la scultura che impone
l’itinerario al visitatore. Nel suo procedere
spaziale incorpora l’abitacolo dei due uffici, e
dentro gli uffici si modella sino al punto di
trasformarsi in mobilio. La sua continuità è
imponente e in pari tempo estremamente variata,
tanto da imporre al visitatore più di una sosta per
godere della molteplicità delle sue proposte
formali. Dalle superfici traspaiono qua e là
fotografie di figure umane: una scultura-casa, una
scultura-paesaggio. O, se volete, una
scultura-cosmo. Presenza terribile e meravigliosa
nella sua imponenza, si diceva. Il visitatore può
constatarlo.
Ma constaterà altresì che terribile e
meravigliosa è la stessa Industria. Non più deità
laica ma nemmeno Moloch. Non più Paradiso, ma
nemmeno Inferno, una realtà, piuttosto: umanizzata
ed ancor più umanizzabile. Avere espresso tutto
questo mediante una fantasia creativa fondata in
prevalenza sulla evocazione simbolica, documenta
ancora una volta le capacità di Rambelli.