LUCIANO CARAMEL 1967
Tra i pochi artisti italiani che, intorno al ‘60, si sono proposti, pur lungo strade diverse. l’esigenza di dedicarsi ad una scultura che sappia tradurre con il mezzo plastico non le convenzioni di un antropocentrismo di maniera, ma il multiforme essere delle cose, tra questi artisti un posto rilevante occupa certo ( anche per gli sviluppi che ha saputo dare alla sua ricerca, fino alle ultimissime opere) Amilcare Rambelli, che già al suo primo apparire ufficiale (nel 1962. in una "personale" non dimenticata) mostrò di riuscire a trattare la materia con singolare originalità: cioè senza comprimerla entro schemi fatti, ma anche senza cedere alle tentazioini dell’accentuazione espressionistica o dell’indugio edonistico: due pericoli, questi ultimi, che, si badi, erano allora - in un clima di epigonismo informale, quando alla rivolta "autre" si ripetevano con stanchezza e povertà solo gli esiti più marginali - non poco minacciosi.
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L’unico segreto di questa "naturalezza" - che dà alle opere di Rambelli il loro tono fondamentale -
che non è di desolazione e di morte come invece ad esempio in un Burri (lo ha giustamente ricordato Crispolti), ma che neppure, mi sembra, può essere inteso (come hanno fatto Kaisserlian e Crispolti) come un "esplosivo inno alla vita" - è insomma la capacità di registrare lo "spazio dell’immagine" (per usare la sigla di una mostra fortunata) di qui l’assenza di violenti scardinamenti, come di accomodanti elegie.
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A questa più recente evoluzione, Rambelli è quindi giunto non per una rinuncia ai criteri fondamentali cui almeno dal ‘61 si ispira il suo lavoro, ma per uno sviluppo conseguente della sua ricerca, che lo ha portato all’insoddisfazione per un rapporto con la realtà sì indubbiamente diretto e "vero", ma anche ristretto dal suo stesso confinarsi ad un livello primario e quindi di necessità riduttivo. Il che è avvenuto - con particolare tempestività.