FRANCESCO VINCITORIO
Ad Amilcare Rambelli spetta senza dubbio un posto di
rilievo fra i giovani scultori non solo milanesi.
Senza stare a rintracciarne qui la vicenda artistica -
cosa che ha fatto distesamente ed egregiamente Enrico
Crispolti nella presentazione - si deve dire che il
passaggio dalle terrecotte. apparse la prima volta nel
‘62, a questi bronzi, presentati adesso indica una
rara, sorprendente coerenza. E, cioè, la medesia
volontà di permeare di sè l’opera, per cercare di
esprimere in modo diretto, attraverso quella crescita
quasi viscerale della materia bruta, una determinata
intuizione esistenziale. Qualcosa che è soffio vitale
che un tempo inturgidiva le forme - nella povertà
ingrigita del cotto una sottolineatura di materia
sorda, inanimata - e infine le spaccava, mettendone a
nudo il travagliato processo.
E che ora in queste
opere bronzee, si è fatto discorso più serrato, forse
meno retorico. Rivelatori anche i bellissimi disegni
così vorticosi e sempre sul punto, magari per una
lieve piegatura, di passare da un movimento meccanico
ad un’animazione che è vita. Un impegno stilistico più
maturo che gli fa avvitare il bronzo come se fosse, al
tempo stesso, macchina e prodotto della macchina ma
con un continuo slabbrarsi, scartocciarsi che
denuincia una latente, profonda forza primordiale.
Un
costruire le forme secondo moduli razionali,
addirittura schematiche o con volumi che interessano
uno spazio logico, rinascimentale. Ma, mentre vi sono
ancora dappertutto le tracce della materia costretta,
piegata ad un ordine, lo scatto di un lembo, una
rugosità improvvisa testimoniano il sorgere di nuovi
processi.
Una inarrestabile dialettica che nella
coscienza dell’artista diviene malessere morale ma
anche sguardo lucidamente consapevole. E questa
consapevolezza si travasa in chi guarda per quelle
misteriose ragioni che sorreggono le autentiche opere
d’arte.