MARCO VALSECCHI
Uno degli aspetti della scultura giovane maturatasi
in questi anni, in netta differenza dal geometrismo
astratto da una parte, dalla figuratività più o meno
realista dall’altra, e ancora dall’oggettualità
consumistica pop o funzionalmente industrial-design,
è quella che assume una rappresentazione metaforica
della vita organica. Nodi di energia, magma di
sostanza attiva, e filamenti, nervature, cartilagini
o strutture in formazione.
Rambelli esprime un’idea
di violenza germinale.
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Certe forme, nella conclusione di immagine, potevano
apparire scudi guerrieri, testuggini. Tendeva cioè a
non lasciarsi trascinare da un eccesso espressivo, a
non caricare di sensi e di simboli estroversi quella
sua idea: a contenerla insomma in una castigatezza
formale, che d’altra parte, proprio per quel che
intendeva dire, accentuava quel senso di forza, di
compressione, di tellurico divincolamento.
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Rambelli è ora affascinato dal mondo delle macchine.
Si badi: non è l’ottimistico concetto di progresso
industriale dei futuristi, ma una diversa
figurazione dell’originario motivo della forza e
della primordialità che cerca di demitizzare una
macchinosità troppo premente sopra la nostra sorte.
Da un lato, per via di certa fantastica
presentazionme di ruote, volani, spirali - qualcosa
di tremendo come uno strumento di persecuzione -
sembra di trovarci di fronte a una esaltazione
drammatica dei congegni meccanici.
Ma anche qui
Rambelli finisce per imporre il suo ideale plastico:
e allora nello spazio si apre un organismo che vive
proprio per la sua dinamica strutturale, che
suggerisce, è vero, sensazioni di crudeltà, ma nello
stesso tempo si compone in un’immagine che vale
anche per la sua autonomia.
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