LARA VINCA MASINI
PER UNA MONOGRAFIA DI AMILCARE RAMBELLI
1975
L'azione che Amilcare Rambelli intende portare avanti, ormai da vari anni, con la scultura, si presenta tra le più problematiche e operativamente complesse nel panorama diversificato della scultura italiana degli ultimi quindici anni. Questo si è verificato fin dalle origini materico-artigianali delle sue terrecotte di tipo organico-strutturale, dotate, cioè, «di un intimo sistema organico, di una serrata logica fisiologica» (Tadini, 1963); si evidenziava col passaggio alle sue esplosioni-nascita, che squarciavano la superficie rugosa, durissima dell'oggetto, con una lacerazione a strappo, nella improvvisa e incontenibile violenza di una germinazione naturale (crescita naturale come violenza, come lotta esistenziale, volontà irrefrenabile di affermare il suo diritto alla vita; vita, infine, come violenza; ma anche come atto di difesa imposto dal di fuori, dall'ambiente, inteso prima come scorza, contenitore, guscio, poi come «altro», come fattore a sé nei confronti dell'organismo).
A poco a poco, quasi subito dopo le sue prime mostre del '62-'63, Rambelli superava questo rapporto viscerale di quel suo ganglio interiore, espresso con una simbologia contenutistica vivace e dinamica, ma abbastanza in linea con le contemporanee esperienze di scultura di tutto quel settore materico, postinformale, organicistico (Trubbiani, Cavaliere,...) ormai uscito dalla concezione bloccata della scultura europea della prima metà del secolo (da Arp a Moore), di cui aveva squarciato il blocco compatto, indagandone ed evidenziandone le inquietudini interne, che la forma conchiusa, perfetta, compatta, aveva prima, per così dire, congelato.
Rambelli, da questo momento, aveva, per così dire, volto lo sguardo dall'interno all'esterno: il suo «organismo plastico » provava l'impatto con l'organismo meccanico dell'ambiente urbano, tecnologicizzato, in cui veniva a concorrere, in una dialettica non di opposizione, ma di coesistenza. Ed è questo che distingue, da allora in poi, il discorso di Rambelli (come già osservava, nel 1969, Paolo Fossati, il cui testo, a ragione, Rambelli considera più «un atto di collaborazione critica » che non una presentazione).
Era questo il periodo in cui Rambelli tentava un incontro «spregiudicato» tra arte e industria, proponendo, tra l'altro, la sua scultura abitabile (4 metri x 33) per il padiglione della Manifattura Ceramica Pozzi alla 44a Fiera di Milano (1966), che si proponeva come chiarificatrice delle «modalità di un rapporto tra l'io e il mondo tecnologico» (C. Munari). Si trattava di una scultura in gesso, ferro, alluminio, snodantesi lungo tutto il padiglione e includente uffici e spazi percorribili, svolta a nastri, a cavee, a grovigli, di una intenzione simbolica fortemente espressiva. «La sua continuità è imponente e in pari tempo estremamente variata » (scriveva ancora C. Munari), «tanto da imporre al visitatore più di una sosta per godere della molteplicità delle sue proposte formali. Dalle superfici traspaiono qua e la fotografie di figure umane: una scultura-casa, una scultura-paesaggio. O, se volete, una scultura-cosmo. Presenza terribile e meravigliosa nella sua imponenza, si diceva.
Il visitatore può constatarlo. Ma constaterà altresì che terribile e meravigliosa è la stessa industria. Non più deità laica ma nemmeno Moloch. Non più Paradiso, ma nemmeno Inferno, una realtà, piuttosto: umanizzata ed ancor più umanizzabile».
Quel che più interessa, è, soprattutto, che da questo momento si chiarisce in Rambelli la sua intenzionalità primaria: quella di costituire un rapporto tra l'opera e l'ambiente, tra l'opera e l'architettura della città, con tutti i suoi rischi, con tutte le paure che la città di oggi riversa su l'uomo, al di là di una mitizzazione passeggera e ottimistica. Questo implicava anche, per Rambelli, la necessità di un dialogo che fosse anche più diretto che non tra l'opera e l'ambiente, un dialogo che coinvolgesse direttamente anche il suo essere uomo, in uno scambio e in una dialettica in cui il lavoro dell'artista si riversasse nell'attività quotidiana dell'uomo-artista, oltre che viceversa. La sua implicazione sociale, politica, autodidattica, come egli la chiama, si arricchisce dell'apporto derivato dall'opera, che si fa, per contro, anche didattica per l'autore stesso, costringendolo ad una dinamica di rapporti rinnovata, scaturita dal lavoro stesso.
Di qui la ricerca, per Rambelli, di instaurare un discorso intersoggettivo, una collaborazione con dei giovani, con quelli che egli chiama gli «ammirevolissimi inesperti» e con operatori di discipline diverse. Ma doveva essere, e in sostanza credo lo sia stato, un lavoro di scambio reciproco, in cui nessuno si ponesse come maestro, ma, alla pari con gli altri, potesse mettere a disposizione la propria esperienza (esperienza tecnica, di vita, di artisticità, nel caso dell'artista), le proprie intuizioni e le proprie proposte, le divergenze, le incertezze, la vitalità, la forza distruttiva e contestatrice (nel caso dei giovani), per cercare insieme una alternativa reale da contrapporre al rifiuto delle strutture consunte; alternativa che non si riducesse semplicemente a quel «no», che lascia soltanto un vuoto.
E' per Rambelli, il momento più legato alla progettualità: accanto ad un «organismo» ancora matericamente complesso: di allusione latamente organica — ma ridotto a nodo larvale, avvolto in fasci di una muscolatura coriacea, dura, come bruciata, che quasi si trasforma in sudario, irta di punte acuminate, di filamenti, di strali, in un tentativo di difesa estrema — e ancora espressa in metallo a fusione, sono venute a disporsi, in strutture quasi costrutti- viste, di allusione architettonica, piastre in acciaio, in plexiglas, in alluminio, usate in lastra, riflettenti, trasparenti, con le quali la massa rappresa, ridotta di dimensioni, prova continuamente la sua ragione di essere, in un confronto speculare diretto e aggressivo, che la mette a nudo, «scoprendola» senza pietà.
Le ultime esperienze di Rambelli accentuano ancora questa sua intenzione progettuale, urbanistica: la massa rappresa, che si pone in alternativa col «campo-territorio», si riduce ad «un dato rappresentativo, rilevato, come una plasmabile deformità, per mezzo di una materia facilmente fusibile e ancora carica di decrepita memoria artigiana»; l'opera si riduce ad «un foglio di lamiera "disegnato", ma poi anche "piegato" perché assuma un carattere non solo teorico di abitabilità», come egli scrive, per una sua recente personale.
Un impegno, sempre, di estrema coerenza, di fedeltà ad un proprio mondo di ideali e di esperienze, volto a chiarire a se stesso, prima che agli altri, per un preciso senso di lealtà, quel rapporto (mi piace concludere con parole sue), «troppo approssimativo di ogni oggetto che oggi si definisce convenzionalmente come scultura, o anche come antiscultura», «con gli spazi entro i quali si svolge, si svolgerebbe, o non vorrebbe svolgersi affatto la nostra realtà quotidiana».