LUCIANO CARAMEL 1970
Il "nuovo corso" della scultura di Amilcare Rambelli
cominciò ad affacciarsi già in certe terracotte ed
in certi bronzi del ‘65, ove apparvero forme prima
inusate, quali ruote, cilindri ed assi nettamente
squadrati, che presto si precisarono, rivelandosi
poco a poco - attraverso una fase più cauta, in cui
non era abbandonata la lievitante e corrosa
modellazione delle opere precedenti - come dei veri
e propri elementi meccanici, sempre più taglienti e
dotati di una scattante rigidità, che richiese l’uso
di materialio più duri e secchi della terracotta o
dello stesso bronzo.
Rambelli usciva allora da una
lunga e validissima esperienza plastica nata
dall’organicismo e dal matericismo informale, ma
condotta senza sbavature, senza compiacimenti, ed
anzi sempre sotto il segno di un controllo a suo
modo rigoroso, derivante, come già ho avuto
occasione di rilevare, non da un intervento
determinante dell’autore, ma dall’affiorare di una
misura naturale, consustanziale alla materia, che lo
scultore riusciva a fare emergere. Caratteristica di
quelle opere era la tendenza a chiudersi, attorno ad
un ben definito nucleo centrale, in una quasi gelosa
autosufficienza, entro cui, attraverso lenti
movimenti dall’interno, si producevano lacerazioni e
corrugamenti.
La nuova fase portò Rambelli oltre i
primitivi confini, a protendersi nello spazio con
un’inedita articolazione, e quindi con nuove e più
larghe possibilità operative. La forma potè
dislocarsi secondo più direttrici, al di fuori di
vincoli convenzionali, fino a coinvolgere l’ambiente
e a divenire essa stessa ambiente.
Col che Rambelli
non abbandonava quelle matrici germinali cui aveva
per tanto tempo rivolto l’attenzione: solo non le
accettava più come unico polo di ricerca,
inserendole invece in una dimensione aperta,
dialettica, idonea a sviluppi non preconcetti, anche
se, all’inizio, si sentì il peso di una troppo
parziale contrapposizione tra informe e "formale" -
rimandanti l’uno ad una supposta genuinità naturale,
l’altro al mondo della tecnologia, della macchina -,
contrapposizione che fece correre allo scultore il
rischio - forse più nelle intenzioni che nei fatti -
d’essere coinvolto (paradossalmente proprio mentre
il suo discorso si faceva sempre più ramificato, con
la scoperta di situazioni cariche di rapporti,
dipendenze ed interazioni) nella condiscendenza per
forzosi contenutismi, in fondo riassumibili
nell’affermazione di un irriducibile contrasto tra
un ipotizzato "bene naturale" ed un astratto "male
artificiale": semplificazioni polemiche che possono
sì assumere un significato positivamente eversivo,
ed esser causa, in particolari momenti e
concretandosi in stimolanti rifiuti globali, di veri
salti qualitativi, ma solo a patto che non manchi
quella necessaria radicalità che può esser data solo
da una forte carica utopica, che non ammette mezze
misure e cautele, e che proprio per questo provoca
uno sconvolgimento nei meccanismi abituali: il che
ben raramente avviene in un campo ambiguo come
quello dell’arte, ove il rapporto con la "vita" è da
sempre, facile esca a tutti gli equivoci, e dove -
lo si è visto e lo si vede in tanta arte "povera" o,
anche in tanta arte "politica" - lo slittare dal
rifiuto al compiacimento più o meno sincero per il
rifiuto stesso o, peggio, alla retorica o al
manierato vagheggiamento di atti solo apparentemente
"primari", sembra più che l’eccezione, la regola
inevitabile, quando non si tratti addirittura di
pura e semplice ipocrisia o malafede.
Ad ogni modo
presto, anche se la primitiva rigidità di
contrapposizion sembrava venir ribadita, ed anzi a
dispetto di siffatta esibita riaffermazione, la
ricerca di Rambelli, quale è dato constatare nelle
opere, superava nettamente ogni riduzione
asseverativa. Il ricorrente grumo di materia informe
che lo scultore proponeva come sibolo di una
"naturalità vera" perdeva gradualmente la sua
posizione di isolato ed esclusivo polo positivo,
usciva dal limbo irreale in cui poteva averlo posto
l’urgenza dell’impegno contestativo ed entrava,
finalmente dialogante, finalmente attivo,
nell’insieme.
Rambelli, lo ha bene sottolineato
Paolo Fossasti, aveva ormai compreso "che "storia è
discontinuità", coabitazione di opposti, e che tale
coabitazione non è lacerazione ma rilievo di diversa
sostanzialità in modi difformi", per cui la sua
ricerca era divenuta "davvero dialettica,
continuità-discontinuità, e non separazione". Ed
ecco che, se da un lato quel simbolo primigenio,
lasciando per via tutta la sua volontaristica
rilevanza, si arricchiva di nuove implicazioni, meno
improbabili e generiche, divenendo piuttosto il
riferimento a precedenti e non negate esperienze e
modi espressivi (e infatti nelle ultime opere
essoviene affiancato, o sostituito, da riporti
fotografici di vecchi lavori, o di parti di essi,
che con più flessibilità aderiscono alle nuove
funzioni, offrendo un particolare spesso temporale);
dall’altro si assisteva ad un progressivo ed
autonomo espandersi di quelle strutture che prima
erano solo contorno "esterno", costretto ad essere
soprattutto un termine di rapporto, privo di una non
riflessa vitalità.
Esse sono proliferate
audacemente, generando organismi singolari, vivi, e
tali da costituire - riprendendo e sviluppando le
intuizioini insite nella grandiosa scultura-edificio
realizzata nel 1966 per il Padiglione Pozzi alla 44°
Fiera di Milano - non solo un penetrante attacco
all’accezione accademica e rinunciataria di
"scultura" (diventando, in questo senso,
anti-scultura), ma originali proposte per
un’architettura dinamica e non avvilita in schemi
abitudinari o di comodo.
Da una posizione
prevalentemente negatrice, Rambelli è così passato
ad un ruolo esplicitamente costruttivo: senza
rinunciare, tuttavia, alla sua incisività critica,
che anzi ha trovato una direzione più ricca. Il
"costruttivismo" che ora Rambelli difende è infatti
turgido di polemica contro ogni declinazione
formalistica ed astratta. Fondato sulla realtà e sui
veri bisogni dell’uomo, innestatoo pragmaticamente
in una dimensione temporale globale (che non escluda
il passato, attivo attraverso la memoria), esso
intende opporsi a qualsiasi integrazione e a
qualsiasi imposizione esterna, ribadendo
l’importanza d’una progettazione dotata insieme di
concretezza e di profetica libertà.