ENRICO CRISPOLTI
Ricordo di aver notato le sculture (erano
terracotte) di Rambelli in occasione della sua prima
personale, a Milano, alla Pater, nel ‘62: ammassi di
materia, schiacciata, e disposta secondo
configurazioni elementari e primarie, percorse
tuttavia in superficie da tutta una vita, diciamo
tissulare, di segni, incisioni, escrescenze,
scabrosità, orientate anch’esse secondo andamenti
elementari e primari. Quelle terracotte mi
attrassero per una loro indubbia consistenza
plastica, e tuttavia non arrivavano a convincermi
interamente per una ancor troppo embrionale (o tale
comunque risultava alla mia lettura) definizione
delle loro intenzioni figurali. Nel presentarle in
quella prima "uscita", Kaisserlian annotava del
resto delle sculture di Rambelli: "attirano come se
fossero degli organismi naturali sia pure cifrati ed
irriconoscibili.
Di fronte ad essi proviamo quella
sensazione di una presenza enigmatica che
suggeriscono certe recenti sculture di Fontana, a
forma di palla con fenditure". Rambelli
indubbiamente aveva allora alle spalle l’esperienza
dei più sottili e spericolati "ascolti" di moti
intimi e "letture" dei segni più riposti ed arcani
della materia, dei protagonisti dell’esperienza
informale, e non dico soltanto degli scultori. Di
fronte, tuttavia , ai "palloni" di Fontana
l’attenzione di Rambelli di quegli anni della sua
prima affermazione mi sembra divergesse
notevolmente. Fontana infatti riscattava nei
"palloni" un gesto elementare e primario qual’è
quello di incidere e colpire la materia (secondo
un’interpretazione che proposi anni fa) quasi per
esorcizzarla, al modo degli abitatori delle grotte
preistoriche e dei loro interventi ritualistici e
propiziatori (come sottolineava Benjamin Peret di
quell’uomo preistorico: "Per modellare la natura
secondo i suoi desideri, egli deve prima
esorcizzarla"): per imprimere a quella materia
bruta, informe, primaria, il segno di un intervento
umano, di una presenza artificiosa, per
coinvolgerla, dall’inerzia del caos, alla
partecipazione ad un attivismo, che la capovolgerà
in estrema mondana artificiosità.
E’ dunque Fontana
che interviene, che agisce, che domina epicamente,
in una spossante lotta, l’ammasso materico. Rambelli
invece appunto "ascoltava", "leggeva" la materia, ne
spiava le increspature, l’eventualità, se non -
ancora - di una germinazione, certo di
un’escrescenza, il senso di un’effrazione. Il segno
arcano impresso dal gesto di Fontana nella materia
rigogliosa - il "buco", la fenditura, quasi
tellurici, dei "palloni" - vale appunto nella forza
suggestiva di testimoniare un’epica primordiale, il
riscattato gesto appunto del primo dominio dell’uomo
sul mezzo più elementare, il fango biblico dal quale
ha tratto origine. Il tessuto di segni ed emergenze
arcane della superficie delle terracotte di Rambelli
era invece soprattutto l’imminenza del gravitare di
una ricchezza interna alla materia stessa, alla
materia più elementare, la terra generante: e le
terracotte si offrivano allora come tavole, come
oggetti appunto di ascolto e di lettura, di
reperimento di quei moti profondi attraverso i segni
che in superficie ne affioravano, segni arcani,
enigmatici, indefiniti. Quei segni, Rambelli, se
così si può dire, li accettava, li ispezionava, non
li imponeva.
Appena poco meno d’un anno più tardi,
ripresentandosi in una nuova personale alla Pater,
Rambelli dimostrava che quelle ispezioni avevano già
dato esiti ulteriori, nuovi: oltre la rugosità e
l’intrico segnico arcanamenter indefinito della
superficie, urgevano fasci organici, bulbi,
embrioni: la terra prendeva corpo, accettava il
veicolo della metamorfosi organica, accresceva la
propria dimensione, non solo terra, ma vitalità
generante, organismo respirante e vivo, pur se
ctonio, d’una tellurica visceralità. Questa matrice
di organicità terrena - che al livello del proprio
lavoro a cavallo fra il ‘62 e il ‘63 Rambelli ha
messo bene a fuoco - resterà tipica alla dimensione
immaginativa del nostro scultore: quasi una polarità
alla quale riportare, come un continuo rassicurante
riferimento, ogni ulteriore apertura immaginativa;
lo vedremo più oltre. Ancora annotava Kaisserlian,
nelle parole di una nuova presentazione: "Nei cotti
ch’egli ora ci offre, vivono e palpitano degli
oggetti (ancora cifrati) che paiono dei personaggi,
pronti ad esibire tutta la loro possibilità di
movimenti. In una scultura, ad esempio, affiorano
delle speci di fibre muscolari e domina un arcano
senso di imminenza, in un’altra ecco delle
spaccature, delle "piaghe" come dice Rambelli, cioè
l’immagine di ferite che fanno soffrire e
sanguinare. Ma soffrire e sanguinare, non è forse
vivere e manifestarsi scoperti, in un singulto vero,
che sfugge alle convenienze?".
Non vorrei che il
riferimento alle "piaghe" sviasse, magari idealmente
riferito alla misura che hanno assunto
nell’intrusione materica profonda, di organismo vivo
leso, e strappato, in particolare, nelle "plastiche"
di Burri; oppure al contrario, libero da così
imponente responsabilità esistenziale, magari
riferito invece all’esposizione drammatica d’un
sapiente esito febbrile, come negli strappi multipli
stratificati, dei metalli di un Pierluca. Ancora una
volta infatti Rambelli è in condizione di "ascolto",
di "lettura" ispettiva: una "lettura" tuttavia che
ha superato il limite della tissularità di
superficie, s’è fatta appunto plastica, se così si
può dire, tattile, attiva, palpante, nell’inseguire
appunto gangli, fibre organiche, pulsanti, ed in
espansione, nel seno stesso della primaria materia
terrena. E così quelle "piaghe" di Rambelli non
interrompono il ciclo di natura per imporre il grido
d’una profonda lesione esistenziale (lo scacco d’una
deiezione ineluttabile), non sono ferite, bensì
l’aprirsi naturale di tessuti organici, come il
fendersi d’una placenta, d’un guscio, per accedere
ad una dimensione ulteriore di respiro e vitalità
organica; quelle "piaghe" non sono così neanche
astratte fratture, esibite per tali:
sono concretamente appunto espulsioni, crepe d’una nuova
turgidezza, premente dall’interno, in espansione,
che Rambelli attende, emotivamente partecipe del suo
crepitante affacciarsi, del suo espandersi, che egli
spia per fenditure, per fratture al di là della
scorza, della superficie.
Sono le "piaghe" insomma
non della "desolazione e morte" di
Burri, ma di "un esplosivo inno alla vita"
(Kaisserlian), che Rambelli va formulando con tenace
e sempre più solida e persuasiva impresa
immaginativa. Il lavoro di Rambelli nel ‘63 e nel
‘64 ricapitolato da un’importante personale da
Pagani nel ‘64. lo impone già fra le più
interessanti proposte edella nuova scultura
italiana, dialogando liberamente ed originalmente a
Milano, con il dinamismo intenso di Somaini e con il
narrativo nuovissimo di Cavaliere. E fra il ‘63 e
parte del ‘65 Rambelli procede in una "messa a nudo"
sempre più impegnata di bulbi, radici, tessuti
muscolari, quasi si direbbe, scoperti entro la
materia, prementi in un’inarrestabile loro urgenza
vitale contro le ottuse pareti di una materia
primaria, terra, muro.
C’è come appunto una forza
incoercibile che dall’interno si espande, che
corrode e spezza il dato inerte della materia, lo
coinvolge nella traettoria della propria crescita,
del proprio ritmo. Diceva di queste nuove sculture
Tadini in una breve nota per una mostra del gruppo
nel ‘64 stesso: "A volte sono simili a rettili
ostinati, ambiguamente collocati a metà tra
oggettività minerale e organicità animale: come se
lo scultore si sforzasse di fondere in una sola
forma dure allusioni all’arcaico e fragili emozioni
immediate. Altre volte queste sculture ostentano la
fatica e l’imprevedibile aggrovigliarsi di una
metamorfosi bloccata nel suo nascere. Altre volte
ancora la materia sembra far scaturitre da sè
stessa, naturalmente, un tessuto sensibile. Ma,
sempre, il puro valore plastico in cui chi guarda
crede per un attimo di poter risolvere il senso di
queste sculture, finisce per lasciare il posto ad un
altro valore: alla complessa unità di accadimento
concreto, che vive nel racconto". A questo livello
il "racconto" organico di Rambelli è tuttavia
racchiuso entro la crescita metamorfica della sua
stessa organicità: non è insomma il racconto
spazialmente dislocato di un Cavaliere. Del resto
una dimensione narrativa non è - nè sarà -
necessaria all’immaginazione di Rambelli se non come
modo di definire l’espansione di tale organicità, il
suo prender corpo ulteriore, dico entro un contesto
di spazio, e non più soltanto entro un "medium" di
materia primaria, tellurica, come si diceva
Ciò accade nel lavoro nuovo, dello scorcio del ‘65, del
‘66 soprattutto, e di questo inizio del ‘67: il
lavoro sul quale è imperniata questa personale, che
mi sembra senz’altro, finora, la più memorabile ed
incisiva di Rambelli. Nel ‘65 fra le polarità
problematiche che strutturavano "Alternative Attuali
2" ad Aquila, le sculture di Rambelli, le avevo
collocate all’insegna de’ "Le forze della natura",
accanto a quelle di Somaini, Hiltmann, Dyens, e
Benevelli. Se della Natura è decaduta - scrivevo nel
catalogo - la tradizionale immagine paesistica,
resta quanto mai viva quella appunto dell’ispezione
organica, del vitalismo dell’espansione embrionale,
dell’articolarsi di gangli e trame, del peso
dell’estensione di una densità corporea primaria, di
una vitalità energetica nell’atto di diramarsi ed
espandersi. Dunque il Rambelli di quel momento
pienamente, e direi da protagonista (di fronte alla
qualità intensissima dei risultati proposti), si
inseriva in tale polarità problematica. Non facciamo
tuttavia di Rambelli un naturalista, neppure un
naturalista in senso organicistico.