MARCO VALSECCHI
Uno degli aspetti della scultura giovane maturatasi
in questi anni, in netta differenza dal geometrismo
astratto da una parte, dalla figuratività più o meno
realista dall’altra, e ancora dall’oggettualità
consumistica pop o funzionalmente industrial-design,
è quella che assume una rappresentazione metaforica
della vita organica. Nodi di energia, magma di
sostanza attiva, e filamenti, nervature, cartilagini
o strutture in formazione.
Rambelli esprime un’idea
di violenza germinale. Ricordo le sue rime sculture
viste nel ‘62 a Milano, di terracotta: larghe
placche di terra spaccate da fenditure, sfogliate
come pergamene, ma soprattutto violentate da
protuberanze che vogliono emergere, venire alla luce
con un’allusione non poi tanto coperta di nascita
animale.
Nell’atto stesso che affermava una
germinazione vitale, denunciava un’implicita
situazione di sofferenza, che lacera zolle e carne
in un’ambigua ambivalenza di pianeta e di corpo
umano. Si potevanoi persino contare i tendini
attorcigliati, cogliere lo strappo delle epidermidi,
in una figurazione al culmine della sua tensione di
forza e di dramma.
Ma al di là di questa metafora
germinale, si poneva a favore di Rambelli la sua
esplicita volontà di ridurre questo ribollente
contenuto a motivo plastico determinante. Certe
forme,nella conclusione di immagine, potevano
apparire scudi guerrieri, testuggini. Tendeva cioè a
non lasciarsi trascinare da un eccesso espressivo, a
non caricare di sensi e di simboli estroversi quella
sua idea: a contenerla insomma in una castigatezza
formale, che d’altra parte, proprio per quel che
intendeva dire, accentuava quel senso di forza, di
compressione, di tellurico divincolamento.
Questa
capacità di condurre sempre il discorso a una
pienezza di immagine, a stretti valori plastici, è
un dato positivo della personalità di Rambelli, che
fa scultura proprio perchè ha deciso di esprimersi
per quella via. Ne verrà sempre una concentrazione,
che a volte può apparire persino una brusca
acerbità, e invece condensa una forza espressiva che
potrebbe dilatarsi e disperdersi in episodi
esteriori: una deviazione che, almeno finora, non si
rileva nel lavoro di Rambelli.
Ed è per questo che
una interpretazione così densa di allusioni per
l’evidenza fredda delle slabbrature e delle
lacerazioni, di una non poi tanto remota
torturazione, resta aliena da retoriche
sottolineature che la renderebbero fastidiosa. E’
una difesa, del resto istintiva al temperamento di
Rambelli, che vediamo attuarsi anche nelle opere di
questi ultimi anni.
Da un’idea di evento germinale,
carico di una sua barbarità, e senza discostarsi
molto dall’idea di aggressiva e prepotente vitalità,
Rambelli è ora affascinato dal mondo delle macchine.
Si badi: non è l’ottimistico concetto di progresso
industriale dei futuristi, ma una diversa
figurazione dell’originario motivo della forza e
della primordialità che cerca di demitizzare una
macchinosità troppo premente sopra la nostra sorte.
Da un lato, per via di certa fantastica
presentazionme di ruote, volani, spirali - qualcosa
di tremendo come uno strumento di persecuzione -
sembra di trovarci di fronte a una esaltazione
drammatica dei congegni meccanici.
Ma anche qui
Rambelli finisce per imporre il suo ideale plastico:
e allora nello spazio si apre un organismo che vive
proprio per la sua dinamica strutturale, che
suggerisce, è vero, sensazioni di crudeltà, ma nello
stesso tempo si compone in un’immagine che vale
anche per la sua autonomia. Come un oscuro essere
zoomorfo o prolifera radice vegetale, questi
congegni proiettano piani, tagli, lame, tentacoli
minacciosi, che rendono la loro presenza incombente
al margine di una percezione allarmata.
Ma sul piano
dell’evidenza scultorea è una proiezione di
quell’idea attuale di proliferazione
dimensionale,così evidente presso i giovani scultori
inglesi: aprire il blocco della materia, rompere la
massa complessa, estenderla in superfici ed
articolazioni prolungate, creare una nuova
plasticità che si conforma a un senso nuovo della
spazialità.